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Primo festival di Sanremo: 1951, siamo qui per voi

Ospiti del Festival della Canzone Italiana che si sta svolgendo dal 29 al 31 gennaio in un Salone delle Feste un po’ sorpreso e deluso da questo nuovo tipo di spettacolo musicale

Primo festival di Sanremo: 1951, siamo qui per voi

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28 Febbraio 2021 - 18.47


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di Marcello Cecconi

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Sanremo. Fine gennaio del 1951, lunedì 29 per l’esattezza.  Con un gioco di prestigio amato dai rotocalchi dell’epoca (non dissimili a quelli d’oggi), sono qui a fare in presa diretta la cronaca di un evento che poi passerà alla storia. Scrivo usando verbi al presente inconsapevole, allora, che lo spettacolo al quale io e i “colleghi” stavamo assistendo, sarebbe diventato il più grande festival del pianeta, Sanremo. 

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Curiosa questa tre giorni di canzonette nel monumentale Casinò sanremese. L’esclusivo locale liberty della Riviera dei Fiori è da poco in gestione all’Ata (Attività turistiche alberghiere), diretta dal vulcanico Pier Bussetti. Il Casinò, salvato dai bombardamenti alleati e che si divide fra il gioco d’azzardo e importanti manifestazioni culturali e di spettacolo, decide di battere una strada nuova. Il solenne Salone delle Feste dimentica il suo lontano passato quando quelle sale erano il regno di Pirandello o d’Annunzio e, più recentemente, un luogo dove si esibivano De Filippo e Dapporto. Ora si avventura nell’azzardato mondo della melodia popolare. Siamo solo in tre con taccuino in mano e pastrano in braccio ad avvicinarci al boccascena, per l’occasione trasformata in giardino fiorito, specchio riflesso di questa ancor fredda e poco affollata Riviera dei Fiori.

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Il Commendatore è sul palco indaffarato, ma non è difficile, per lui, capire chi siamo. In un attimo ci viene incontro, scendendo con agilità imprevista le tre scalette del palcoscenico facendosi largo tra orchestrali, strumenti, fiori, microfoni e filamenti elettrici. Bussetti indica, con un sorriso ammiccante, il tavolo vicino al palco: è stato appositamente lasciato libero per noi. Ci vuol riguardo per degli inviati della carta stampata. Quattro Negroni piovono sul tavolino: un invito da non scansare. Alza il suo Negroni con un movimento circolare, come se si esibisse in una specie di benedizione pastorale: un rito per richiedere la nostra attenzione su ciò che sta per accadere.
È la prima delle tre giornate di questo, un po’ pomposamente chiamato, “Festival della canzone italiana” e, in attesa che Nunzio Filogamo, avvocato prestato allo spettacolo leggero, dia il via alla serata, il Bussetti inizia a raccontarci come e perché sia nato questo appuntamento. Lo fa senza nascondimenti e non celando la sua premura.  

Rivela che da qualche anno Amilcare Rambaldi, amico e fioraio sanremese, stava rimuginando sull’idea di un festival di canzoni popolari e ne parlava spesso al suo addetto stampa, il torinese Angelo Nizza. Come non ascoltare la voce di uno degli artefici della fortunata trasmissione radiofonica degli anni Trenta “I Quattro Moschettieri”? Era stato, in realtà, l’estate prima che Bussetti aveva avuto l’occasione per mettere alla prova la sua organizzazione promuovendo il “Festival della gastronomia” con rinomati ristoranti di undici paesi a presentare le specialità della loro terra. Un successo: la serata americana con Stan Laurel e Oliver Hardy e, quella francese, con Jean Gabin, Edith Piaf e Fernandel ebbero un’eco locale e nazionale.
La definitiva folgorazione gli era arrivata, racconta, dopo aveva saputo che Sergio Bernardini, maestro delle estati versiliesi, aveva rinunciato a continuare il suo Festival Canoro Nazionale estivo che da un paio di anni presentava con successo alla Capannina.

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Il Commendatore ora si dondola leggermente sulla sedia, estrae dalla tasca dei pantaloni un Ronson Banker e un pacchetto di Stop con filtro che apre con cura sorprendente. Ce le offre, come fa il buon padrone di casa. Poi, uno sguardo al palco per rassicurarsi che tutto stia andando bene: tutto è cominciato solo due mesi fa e la preoccupazione è visibile nel volto e nei gesti. Dopo un anno di lettere spedite al direttore Generale della Rai, Salvino Sernesi, solo a metà novembre ha ricevuto l’agognata telefonata dal direttore artistico Giulio Razzi (nipote di Giacomo Puccini ndr) incaricato di seguire con la radio di Stato la nascente manifestazione. Con la Rai viene coinvolta così la Cetra che organizza una commissione per la scelta delle canzoni e, come scuderia, mette a disposizione l’intera squadra orchestrale del maestro Cinico Angelini oltre, ovviamente, ai loro tre interpreti più conosciuti che Bassetti sa di esagerare nel definire prestigiosi, Nilla Pizza, Achille Togliani e le due gemelle Secondina e Terzina Fasano.

I camerieri e le cameriere fanno lo slalom fra i tavoli per soddisfare le richieste di un pubblico che ha poco a che fare, per gusti, con le canzoni definite popolari. Al tavolo, le coppie sono più intente a soddisfare il palato nel brusio continuo che a focalizzare attenzione al palcoscenico; uomini in grigio scuro elegantissimi con le signore con pettinature lunghe e ondulate alla Veronica Lake e Rita Hayworth. È il momento di iniziare, Cinico Angelini osserva uno ad uno tutti i suoi orchestrali. Nunzio Filogamo si avvicina all’enorme microfono con un sorriso stampato mentre Achille Togliani fa capolino, per un attimo, dalle dietro le quinte cercando con gli occhi Angelini che annuisce deciso. Bussetti dà un’occhiata all’orologio, mancano due minuti alle 22, si alza dal tavolo e ci dà appuntamento per i commenti di fine serata.

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Cala finalmente il brusio nel salone e lo spettacolo inizia. Nunzio Filogamo con la faccia cerulea sotto i riflettori: “Signore e signori, benvenuti al Casinò di Sanremo per un’eccezionale serata organizzata dalla Rai, una serata della canzone con l’orchestra di Cinico Angelini. Premieremo, tra le duecentoquaranta composizioni inviate da altrettanti autori italiani, la più bella canzone dell’anno”. Ecco il Duo Fasano, partono gli strumentisti agli ordini del maestro Angelini e la prima canzone in programma va, il titolo: “Sorrentinella”

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Sorrentinella cantata dal Duo Fasano

Noi restiamo a sedere per seguire la serata piena di gorgheggi. Siamo trattati bene e fortunati a non pagare il biglietto d’ingresso dato che costa ben 500 lire al pubblico. Bussetti l’ha chiamata “una manifestazione di melodia identitaria di italianità” e la presenza dell’orchestra di Cinico Angelini ne è sicura garanzia. A noi manca un po’, ammettiamolo, la freschezza e il coraggio musicale di Pippo Barzizza. Si è vero, gli americani sono stati rispediti a casa già da qualche anno e le proteste nei giorni scorsi per la visita in Italia del presidente Eisenhower accolto in genuflessione dal Governo De Gasperi hanno scaldato l’animo dei comunisti. Ma tenersi quel loro caro vecchio swing no? Sappiamo che anche Gramsci consigliava di rifiutare egemonie culturali ma noi abbiamo negli occhi, orecchi e cuore quel rovente boogie-woogie ballato da Silvana Mangano in Riso Amaro, che ancora imperversa nelle sale cinematografiche. Eppure a noi sembrava roba italiana e, come il tenebroso Vittorio Gassman sulla scena, non riusciamo a resistergli.  Non sarebbe utile iniziare da lì per ricostruire l’identità nazionale musicale invece che rituffarsi nelle radici dello stantio melodramma?  

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Continuiamo ad ascoltare canzoni fra l’andirivieni sul palco dei tre interpreti e il tintinnio dei bicchieri sui tavoli vicini. Scriviamo mentre Nilla Pizzi canta la canzone “Grazie dei fiori”, lenti versi ritmati accompagnati dal pianto di un violino. Andrà in finale e vincerà il primo Festival.

 

 

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