Già detto, già scritto e lo ripeto: i lustrini di Sanremo sono lontani anni luce dal ciò che accade nel paese reale. Le chiacchiere con gli ospiti menate troppo a lungo; la pubblicità invasiva; le donne (esclusi rari casi) che continuano a far da comparse e accompagnatrici a due maschietti conduttori, hanno un so’ che di patetico. Gli ascolti calano, anche nella serata delle cover, lo spazio, dove in genere nelle famiglie ci si divertiva a canticchiare canzoni conosciute da tutti. Forse, quelle stesse famiglie, sono separate, sono isolate e comunque non possono cantare insieme i brani come un tempo. Un simile dubbio non ha sfiorato le loro menti e la loro sensibilità? Come si fa a non capirlo?
Sanremo ha scelto l’autoreferenzialità; facendo finta che questa edizione fosse simile, in tutto e per tutto, a quella dell’anno scorso o a quelle d’altri tempi. Non è cosi. L’autoreferenzialità li induce a raccontare solo se stessi e a tentar di far diventare quel palco, per qualche ora, l’ombelico del mondo. Non poteva funzionare e, alla prova dei fatti, non sta funzionando. La scelta fatta dalla Rai e dai conduttori era stata motivata, nella conferenza stampa di presentazione, con la necessità di dare serenità agli italiani già stremati. Una cosa è dare serenità, altra cosa è distribuire noia in dosi così massicce che addormenterebbero anche un cavallo.
Sono andati avanti su quella scelta iniziale; sono voluti andare per la loro strada senza ascoltare le critiche, non mutando nemmeno di una virgola un canovaccio un po’ stantio. Stanno pagando pegno. Questo festival sarà anche un festival della canzone, ma non è il festival degli italiani, del paese che abitano.
Ascolti a picco anche con i duetti: 11,2% in meno rispetto al 2020
Crescono i contagi; aumentano le persone (sono milioni e milioni, dicono le ultime cifre) che non hanno un soldo per campare; cresce l’urgenza di correre a farsi vaccinare ma non sì come e con si sa quando; diventa assillante la vita delle migliaia di artisti che cercano tutte le soluzioni pur di esprimere la loro arte e tirarci fuori un tozzo di pane Come fa un Festival della canzone italiana a far finta di niente e a cavarsela con qualche battuta sparsa qua e la tanto per apparire politicamente corretti ?
Il formato scelto, – tutto televisivo – avrebbe avuto bisogno di atri tempi e di altri ingredienti, a iniziare dai testi. Nel formato televisivo i tempi contano, eccome. Non si possono far passare ore riempiendole solo di chiacchiere che non producono emozioni o lo se lo fanno non seguendo uno schema narrativo: eppure siamo nell’epoca dello storytelling, abusato ormai anche per raccontarci la storia dei vini e dei formaggi. Nel formato televisivo contano le emozioni, i contrasti, serve suscitare, per dirla, con un maestro dell’antica Grecia, ethos e pathos, etica e passioni. Invece è apparso tutto o quasi tutto scontato. Esclusi rari momenti di poesia con i quadri si Achille Lauro (bello ed elegante il monologo di Monica Guerritore) e le invenzioni di giovani cantanti, molte donne, che hanno portato ventate di freschezza.
Qualche altra domanda, prima che la giostra finisca: quanto costa agli italiani questo festival? Magari con la pubblicità la Rai ci ha anche guadagnato? Quanto hanno preso i conduttori e i tanti ospiti saliti sul palco? Nel paese che dice di esser divenuto il luogo della trasparenza, non è da populisti porre queste domande. Si è tenuto conto, ad esempio, nell’erogare i giusti compensi della fase che attraversa la nazione? Non è per fare del facile populismo, per saper sapere tutto su Sanremo poiché è gestito da un ente di stato. Aspettiamo le ultime due serate, con ottimismo. Reggeremo e riascolteremo tutto e tutti. Un favore, signori, però io chiedo: ogni tanto mostrateci qualche immagine, qualche suono, qualche voce del paese reale. Quello che è fuori dall’Ariston.