Così Guccini fonde dialetto e italiano nel romanzo “Tralummescuro”

Storia ed elegia sulla sua Pavana nell’Appennino in via di spopolamento. Lo scrittore a Pordenone e poi a Valloriate


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21 Settembre 2019 - 18.13


«Tralummescuro è di un mondo, di una civiltà che non esistono più. Di gente che non c’è più. Verodìo». Lo scrive Francesco Guccini a pagina 9 del suo nuovo romanzo Tralummescuro (Giunti editore, pp. 288, € 19) che ha presentato oggi sabato 21 a Pordenonelegge, al Teatro Verdi, e di cui torna a parlare sabato 28 al Nuovi Mondi Festival di Valloriate, in provincia di Cuneo.

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Come avverte l’editore, il romanzo è «una ballata per un paese al tramonto di cui è protagonista Pavana, il piccolo borgo tra Emilia e Toscana dove sorge il mulino di famiglia». Il 79enne scrittore-cantautore (che non vuol farsi più considerare tale eppure resta una delle migliori voci della musica italiana) fonde italiano e dialetto su un paese come Pavana, in via di spopolamento come si sta svuotando l’intero Appennino. Ma cosa significa «tralummescuro»? L’ora tra il lume e lo scuro, «un’ora che è pace e presagio, tra la luce e la notte».

Intriga il lavoro sul linguaggio compiuto come scrittore dall’autore di brani come La locomotiva e che esordì nella narrativa nel 1989 con Cronache epifaniche. Dall’estratto iniziale pubblicato online da Giunti riprendiamo questo passo dalle pagine 11 e 12 in grado di restituire efficacemente la scrittura di Guccini in Tralummescuro: «Lui va, ignaro di sua sorte, da molto prima che tu aprissi gli occhi e guardassi questa valle; molto prima della mitragliatrice Browning da 12 e 7 degli americani liberatori, un dito indice che sembrava stare per pian-tarsi nel cielo, piazata sul monticello di rifiuti di scavo della Diga, di fianco alla Caṡetta della Fola, prima ancora della Diga istessa; ma prima di tutti quelli che tu hai conosciuto, coi fossi atorno che gli portan acqua, tanta, mugliante, ruggente e motosa, d’inverno, quando le piene urlanti muovon macigni che cioccano come birilli e poca, a goccia a goccia quasi, scorénte lene e chiaccarina per correntelle, d’estate; ma porta sempre, e l’acqua va». «Oggi Pàvana è ormai quasi disabitata, i tetti delle case non fumano più. È in questo silenzio – informa l’editore nella scheda editoriale – che il narratore evoca per noi i suoni di un tempo lontano, in cui la montagna era luogo laborioso e vivo, terra dura ma accogliente per chi la sapeva rispettare. Rinascono così personaggi, mestieri, suoni, speranze: gli artigiani all’opera in paese o lungo il fiume, i primi sguardi scambiati con le ragazze in vacanza, i giochi, gli animali e i frutti della terra, un orizzonte piccolo ma proprio per questo aperto all’infinito della fantasia».

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