Quanti vizietti, cari letterati italiani

Castelvecchi pubblica “L’età del ferro”, un nuovo trimestrale di cultura “militante” fuori dalle consorterie letterarie. Ecco un estratto da "Anticati e Modernariati" di Matteo Marchesini


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30 Giugno 2018 - 17.24


Castelvecchi Editore vara una nuova rivista: non patinata. È un trimestrale di letteratura, di cultura, d’attualità, è una rivista ricca di articoli, saggi, anche poesie, nata per far discutere, da leggere, per pensare senza correre. Ha un bel nome: “L’età del ferro” (pp. 108, euro 14). La dirigono tre vivaci menti assai avverse ai conformismi e alle consorterie: Giorgio Manacorda, Alfonso Berardinelli e Walter Siti. In edicola da luglio, tra varie credenziali si presenta così: “È una rivista militante senza engagement. Forse è addirittura una rivista politica. La letteratura è una forma irriducibile e insostituibile di conoscenza. La letteratura non ha compiti di intrattenimento o di “impegno” immediato, ha la profondità “sociale” delle parole. La letteratura ha a che fare con altri ambiti della cultura, anche con quelli in apparenza più lontani e diversi. La letteratura non è democratica, è critica. Non abbiamo ideologie e comunque fedi, credenze o religioni – neppure la religione della razionalità”. Di seguito, pubblichiamo un estratto dal saggio “Anticati e Modernariati” di Matteo Marchesini, in «L’età del ferro» 07/2018, Castelvecchi editore. © 2018 Lit Edizioni Srl. Per gentile concessione dell’editore.

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“Anticati e Modernariati” di Matteo Marchesini

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L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una montagna di tesi, monografie e manuali critico-filosofici, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua interpretazioni idiote di Walter Benjamin e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare la morta verità dei testi e ricomporre un discorso sensato. Ma una tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine universitarie e del citazionismo imbecille sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo humanities, è questa tempesta.
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Scrivere romanzi ponderosi non è quasi mai necessario, ma presenta molti vantaggi.
Per esempio, anche se il libro è brutto, un lettore paziente tende ad assuefarsi a poco
a poco all’atmosfera, finché la stratificazione dei motivi non gli appare in qualche modo giustificata, e lo induce ad assumere verso l’intreccio lo stesso atteggiamento che hanno gli storicisti davanti alla trama degli eventi reali più ingombranti. Inoltre, una volta che questo lettore ha resistito per seicento, ottocento o mille pagine, è difficile che accetti di riconoscere la loro insulsaggine o inutilità, perché allora dovrebbe contemporaneamente riconoscere di avere buttato parecchie ore del suo tempo. Meglio, molto meglio far fruttare la fatica dichiarando agli amici che si tratta di un’esperienza imperdibile: e così, vedendoli aprire il romanzo alla prima pagina con un sospiro da imminente gara subacquea, soddisfare anche le sottili esigenze del sadismo.
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Tempo fa ho chiesto a un professore universitario perché nel programma del suo corso sulla letteratura italiana dal primo Novecento al Duemila avesse inserito alcuni brutti romanzi usciti negli ultimi anni. Dopo un momento d’imbarazzo, il professore ha ammesso che quei libri forse non sono granché; ma poi, a un tratto inalberandosi, ha concluso: «Dovremo pur fare i conti con la storia!». La storia. Dopo neanche un lustro. Con passaggio immediato dei parallelepipedi cartacei dalla grande distribuzione alla cattedra. Ora, poniamo che durante una lezione di questo corso io entri in aula e afferri un orecchio al caro accademico; poniamo che glielo torca con molta energia, continuando a stringere, senza che lui riesca a liberarsi e senza che nessuno accorra in suo aiuto. Dopo quanti dolorosi minuti il mio gesto può considerarsi non un atto di brutalità ma una ineludibile necessità storica?
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«Mi rifiuto di scrivere ‘Il narcotrafficante uscì alle cinque’» (Paul Valéry 2.0).
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Osservare il gusto, il compiacimento, la frequenza con cui il letterato italiano ripete “il più grande”, “il più incredibile”, “il più sconvolgente scrittore contemporaneo”, specie davanti a tutti i libri voluminosi, monumentali, bellici, stilisticamente o strutturalmente palestrati, anabolizzati, dopati. È un linguaggio che sa sempre di lapide statale e di commemorazione manipolata, che puzza ancora di orbace anche mentre gira nella centrifuga dei flash tv o dei social. «Definitivo, immenso, non ce n’è per nessuno, spazza via tutto con un incipit»: l’immaginario del nostro eterno fascismo ha ora per nome un vezzeggiativo, fascetta.
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– Ho molto apprezzato la sua raccolta di poesie… in fondo si può considerare un romanzo di formazione, no?
– I suoi racconti sono così densi… potrebbero essere romanzi.
– È così raro che qualcuno ci dia un saggio storico-critico tanto godibile… si legge d’un fiato sa? Come un romanzo.
– Non sono riuscita a staccare gli occhi dal suo romanzo finché non l’ho finito… mi sembrava proprio di guardare una serie tv.
– Ho visto la sua serie tv… poesia pura.
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Giuseppe Pontiggia scrisse un dizionarietto satirico molto godibile sui termini via via logorati dalla critica. Oggi, se c’è una parola che credo dovremmo pronunciare solo dopo avere contato fino a cento è “potente”. La troviamo ovunque, sparsa a piene mani soprattutto su libri che credono di affrontare a petto nudo il Male dostojevskiano perché raccontano (male) di mostri giudiziari o di sterminii, magari riecheggiando quel gergo corporale e pseudo-mistico che non manca mai sui palcoscenici del teatro sedicente di ricerca. In questi casi, l’abuso rivela subito il reale significato del termine: “potente” sta per “kitsch”.
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«Qui dobbiamo cambiare narrazione» disse il politico di maggioranza al suo governo.
«Qui dobbiamo fare tagli strutturali» disse il narratore al corso di scrittura creativa.
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“Letteratura e impegno” è una rubrica estiva per settimanali in crisi. Risolviamo così: ha senso chiedere a Sandro Penna un reportage narrativo sugli effetti sociali e sessuali della guerra? No. Ha senso chiedere a George Orwell un poema orfico? No. Chiusura della rubrica. Con un piccolo corredo assiomatico:
1. L’unico impegno dello scrittore è la massima aderenza ai suoi oggetti. Il resto è un impegno che gli si richiede in quanto essere umano, come lo si richiede a tutti gli uomini.
2. Chi confonde l’atto di scrivere con l’atto di portare il proprio aiuto in una mensa per cittadini poveri è un impostore.
3. Tra le sue vocazioni, lo scrittore può coltivarne una da critico della cultura. Allora, se si vuole occupare del “mondo”, dato che ha il dovere dell’onestà linguistica, dovrà:
3a. evitare le false posizioni, cioè non fingere di poter sorvolare situazioni planetarie di cui non sa quasi nulla;
3b. cominciare a esercitare la critica a partire da ciò che conosce meglio: ad esempio i meccanismi editoriali e mediatici a cui partecipa.
Questo è l’ABC. Chi non ne tiene conto torni pure ad aprire la rubrica, o ad agitare la retorica del “fare” mentre passa tutto il giorno a scrivere e organizzare convegni. Nei secoli dei secoli.
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In un caffè della zona universitaria, due zelanti studenti di lettere discutevano animatamente sul tardo Novecento, l’uso del pastiche, l’impegno e il manierismo. Uno brandiva un libro di Michele Mari, l’altro gli opponeva una raccolta di Edoardo Sanguineti. La famosa Disputa degli Anticati e dei Modernariati.
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