Alessandro Leogrande, la letteratura come impegno civile

A soli 40 anni ci lascia per un malore improvviso lo scrittore e saggista pugliese. Che, tra l'altro, aveva affrontato con stile e acume il concetto di frontiera e la piaga del caporalato


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27 Novembre 2017 - 13.41


di Enzo Verrengia

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Con Alessandro Leogrande si spegne molto, ma molto, prematuramente una delle voci più lucide della nuova scena culturale italiana ed europea. A soli quarant’anni, il saggista e filosofo tarantino aveva già avuto modo di sviluppare compiutamente le coordinate di un pensiero capace di analizzare e raccontare un’epoca, questa, così sfaccettata da ingannare anche personalità più mature.
Di certo le sue radici pugliesi contavano parecchio. Questa regione di prossimità mediterranea fu non a caso la prima sponda dalla Grande Migrazione cominciata negli anni ’90. Sulle coste della Puglia sbarcarono migliaia di albanesi nel 1991, alla ricerca di quella che Gianni Amelio avrebbe definito Lamerica. E Leogrande, a sua volta, affrontò senza retorica e ideologia il problema dell’esodo biblico che attraversava il terzo millennio. Si veda il suo libro La frontiera, pubblicato da Feltrinelli. Dichiarava l’autore: «La frontiera è la parola in cima alle politiche dei governi e alle nostre ossessioni quotidiane». Nel testo, Leogrande la rappresenta quale solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.
Un tale approccio era possibile a Leogrande proprio perché veniva da una terra, appunto la Puglia, di per sé lacerata dalle sofferenze del popolo dell’abisso, come Jack London chiamava i diseredati. E qui s’innesca un altro, appassionato ed esauriente sguardo dello scomparso agli scorci più efferati del presente. In Uomini e caporali, Leogrande denunciava lo sfruttamento agricolo dei lavoratori rurali. A tanti decenni di distanza dalle lotte bracciantili di Allegato, Cannelonga e Di Vittorio, la Puglia è ancora travagliata dalla piaga dei caporali, che adesso estendono la loro violenza da negrieri sui disperati in fuga dal continente africano, abbandonato a se stesso quando non conveniva più soggiogarlo da colonialisti. Lo scoprì l’opinione pubblica quando lo scorso anno divampò l’incendio alla banlieue campagnola di Rignano Garganico. Scriveva Leogrande in Uomini e caporali: «Gli schiavi di Puglia parlano di una degradazione dell’uomo, dei corpi e delle speranze». Un aforisma che è anche una sentenza contro i nuovi perpetratori di crimini contro l’umanità.
Questo impegno nella trincea della guerra al deragliamento geopolitico prodotto dal mercato della carne umana si periodicizzò con la collaborazione e poi la vice direzione de “Lo straniero”, la rivista fondata da Goffredo Fofi. Inoltre, Leogrande si occupò di queste tematiche anche per “Internazionale”, “Minima&moralia” e “L’Unità”.
Dovendo adottare per lui un linguaggio di punta, lo si sarebbe potuto definire il Franco Cassano 4.0. Del sociologo barese, Leogrande condivideva nettamente l’apertura su un fondale tutto “meridiano”. Aggiornato ad elementi generazionali che Cassano, pur vivendo e comprendendo appieno, non può assimilare al proprio versante anagrafico. Leogrande, veleggiando verso i quarant’anni, apparteneva alla stessa fascia di tanti che, soprattutto in politica, stanno forgiando l’Italia di questo terzo millennio sull’orlo dell’apocalisse. L’alternativa è fingere di credere al nuovo miracolo, o peggio sbandierarlo per fini elettorali, e scrutare l’abisso con gli occhi di un’intelligenza nutrita di precoce saggezza. Non un nuovo miracolo, ma un nuovo lume della ragione, che per Alessandro Leogrande si è spento per sempre.

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