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"Il Superpotere": un libro profetico quanto Pasolini

Un libro ormai dimenticato uscito nel 1975 e a firma di Peter & Wolf. Sono gli ultimi mesi di vita di PPP. Al centro un dossier su Eugenio Cefis, il ruolo di cardinal Casaroli e molti altri misteri

"Il Superpotere": un libro profetico quanto Pasolini

redazione Modifica articolo

20 Novembre 2017 - 16.47


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di Giovanni Giovannetti

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«Le verità stanno nella penombra»

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Davvero molto utile la riscoperta da parte di David Grieco di un libro ormai dimenticato come “Il superpotere”, a metà strada tra il saggio e il romanzo uscito nell’ottobre 1975 e scritto da Peter & Wolf (Pierino e il lupo; era il nome dato a una rubrica su “L’Espresso”) nell’intento di integrare ciò che si legge in “Razza padrona” di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani, uscito l’anno prima. “Il superpotere” abbraccia un arco temporale di pochi mesi, quelli subito dopo le elezioni regionali del giugno 1975 che vedono l’affermazione del Pci (+ 5,6 per cento). Sono anche gli ultimi mesi di vita di Pasolini.
Pierino e il lupo scrivono che il Pci ha investito soldi non suoi nell’acquisto di azioni Fiat tramite due finanziarie di Bologna, fino a trasformarsi nell’azionista di riferimento del gruppo torinese (e Cefis, avversario di Agnelli, è forse tra gli occulti registi della scalata).
Si legge poi di un dossier su Eugenio Cefis curato dal segretario generale della Fondazione Agnelli Ubaldo “Baldo” Scassellati, un volume rilegato in pelle volto «a dimostrare cinque cose: i limiti della politica industriale di Montedison; gli espedienti attraverso i quali questo gruppo si era ingigantito; l’equivoco rapporto pubblico-privato esistente all’interno di esso; la strategia multinazionale; la pericolosità di Cefis, campione della borghesia di Stato cresciuta sotto l’ombrello del potere politico».
Questo dossier sparirà, per ricomparire poco dopo nelle mani del cardinal Agostino Casaroli, qui a colloquio con Cefis:

«Dottore, quanto perde quest’anno la Montedison?» chiese all’improvviso Casaroli.
«Sui duecento miliardi. L’anno scorso quando abbiamo distribuito 33 lire di dividendo abbiamo detto agli azionisti: “questi utili ve li dovete scordare”. Purtroppo è accaduto quel che è accaduto»
«Lo so, lo so», disse l’altro appoggiando la mano su un volume rilegato in pelle, «Lo so, lo so», disse l’altro appoggiando la mano su un volume rilegato in pelle, «la Standa da sola perderà 20-25 miliardi».
Il Dottore era sbalordito. Questo prete con un velo di barba da cinque della sera, importante a Washington e a Mosca, così dimesso all’apparenza, adesso pretendeva di fare il processo alle sue aziende.
«E la petrolchimica?», continuò Casaroli «Sappiamo dell’accordo con Rovelli, finalmente, per produrre l’etilene. Ma tenga d’occhio il mercato straniero. Ed è stato un errore non potenziare di più la Farmitalia. Errori che si pagano». Fece un’altra pausa poi disse: «Succede sempre così ai managers senza padrone».
«Monsignore», disse il Dottore un po’ seccato, «la situazione del mio Gruppo non è quella di tre mesi fa. Il sindacato di controllo si è sciolto. Si sa chi sono i padroni e quanti sono gli azionisti pubblici e privati. Il “caso” Montedison è chiuso!».
«Questo lo scrive “Il Corriere della Sera”, ma lei ne è proprio sicuro?»
«Certissimo».
Il monsignore prese a giocherellare con il tagliacarte, mentre accarezzava con ostentazione il grosso volume in pelle scura sulla scrivania.
Lo fissò da dietro le lenti con un sorriso enigmatico. Poi scandì lentamente: «Le verità stanno nella penombra, gli errori acciecano».
«Monsignore», disse il Dottore fissando il libro sulla scrivania, «la prego di essere più chiaro».
«Senza dubbio. Lei ha detto che il deficit della Montedison sarà quest’anno di duecento miliardi».
«Esatto».
«Lei non crede che i piccoli azionisti privati, le sue duecentocinquantamila anime, copriranno questo deficit».
«Esatto».
«E nemmeno che gli azionisti pubblici potranno farlo».
«Esatto».
«E sono esauriti i margini dell’autofinanziamento».
«Sono esauriti».
«E non potrebbero bastare i nuovi incentivi per la chimica proposti dal Governo».
«Non basterebbero».
«E allora?», chiese Casaroli.
«Allora ci sono le Banche».
«Ecco il punto! Risponda alla mia domanda: quanti miliardi dovete già restituire alle Banche? A quanto ammonta l vostra esposizione finanziaria?»
«…Credo sui mille miliardi».
Casaroli aprì le braccia: «Mille miliardi. Una cifra enorme. Lo ricorda il cosiddetto piano Carli? Carli un giorno fece questa proposta: poiché le industrie sono indebitate con le Banche fino al collo, trasformiamo i debiti in quote azionarie. Le Banche, cioè, rilevano una quota del capitale sociale, evitano il fallimento delle industrie e ne diventano in parte proprietarie. Un sistema ingegnoso».
«Ingegnoso ma irrealizzabile», disse il Dottore che aveva seguito con crescente nervosismo il ragionamento.
«Questo non è vero» esclamò Casaroli.
«Perché? Chi può fare una cosa simile?»
«Vede, caro Dottore, non si poteva consentire che aziende come le sue andassero, come dice lei, a… ramengo. Il Governo ha dato ordine alla Banca d’Italia di procedere al congelamento dei debiti della Montedison e la Banca d’Italia ha trasmesso l’ordine alle Banche che vi avevano anticipato i soldi».
«Quindi… la Banca d’Italia è il mio nuovo padrone», balbettò pallido il capo di Foro Bonaparte.
«No!» ribatté Casaroli. «La Banca d’Italia, a sua volta, ha ceduto tutte le quote a due nostre finanziarie».
«Con sede… a Bologna?» gemette il Dottore.
«Nel Liechtenstein», precisò il monsignore, sfogliando voluttuosamente il volume in pelle scura.
Il dottore si alzò lentamente, barcollava. Non vedeva l’ora di andarsene. Quasi sulla porta si girò e chiese: «I mille miliardi chi ve li ha dati?»
Casaroli rispose: «Non sono dollari, ma petroldollari».
«Di Sindona e dei suoi amici americani?»
«No, di Maometto e dei suoi nipoti sceicchi», disse il monsignore sorridendo.

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Solo Fiction? No, semmai solo voci di Borsa. L’idea romantica di un azionariato popolare sulla maggiore industria privata italiana è suggestiva Ma inverosimile. Sui petroldollari, Pierino e il Lupo non sono invece lontani dal vero: nel dicembre 1976, dopo quasi due anni di segrete trattative, la Lybian Arab Foreign Investment Company (Lafico) – articolazione finanziaria del dittatore libico Muammar Gheddafi – acquisterà per 415 milioni di dollari (360 miliardi di lire) il 10 per cento del pacchetto azionario della Fiat, gravemente indebitata: seimila lire ad azione, 12 volte il prezzo nominale del titolo, quattro volte la quotazione in Borsa del momento: insomma, un vero affare, condotto a buon fine sotto l’attenta regia del presidente di Mediobanca Enrico Cuccia.
Tra i soci Fiat, Gheddafi è ormai secondo solo all’Ifi, la finanziaria della famiglia Agnelli e a rappresentarlo nel Cda di Corso Marconi entrano il presidente della Libyan Arab Foreign Bank Abdullah Saudi e il vice governatore della Banca centrale libica Regeb Misellati, due distinti e preparati signori che mai battibeccheranno sulla gestione; due che a Torino «si comportarono come banchieri della migliore scuola ginevrina o londinese» (parola di Gianni Agnelli).
Per i libici l’ingresso in Fiat era infatti una operazione dal significato politico: un accredito a fronte di chi li accusava di flirtare col terrorismo.
Col tempo questo rapporto si renderà sempre meno opportuno. S’intende politicamente inopportuno: dagli Stati Uniti il presidente Ronald Reagan accusava Gheddafi di finanziare e persino ispirare il terrorismo arabo, minacciando il boicottaggio dei suoi prodotti; e nel 1986 il socio libico controlla il 15,19 per cento delle azioni ordinarie Fiat e il 13,09 delle privilegiate. A questo punto la Fiat riacquista il pacchetto, con buona soddisfazione da ambo le parti (ai libici il decennio con Agnelli ha fruttato qualcosa come tremila miliardi di lire). Non solo auto: il Governo libico ha avuto anche il 5,31 per cento della squadra di calcio della Juventus. Motivo per cui Saadi Muammar Gheddafi, figlio del dittatore e sedicente calciatore, si toglierà il pure capriccio di calcare i campi verdi della serie A italiana (oltre alla quota in Fiat, il Governo libico ha posseduto l’1,256 per cento di Unicredit, equivalente a 611 milioni di euro; lo 0,58 di Eni, per un valore di 410 milioni; il 2 per cento di Finmeccanica, 40 milioni di euro).

Ma torniamo al 1975 e ai valenti Pierino e il Lupo. In “Conclusione” (così titola l’ultimo capitolo del “Superpotere”) ecco Giulio Andreotti a mani incrociate sorridere ripensando ai grandi rivali, quei due che volevano mettere le briglie a tutti e invece si son ritrovati con le stanghe sul collo: «Chiusi a sinistra dai “giovani leoni” delle Botteghe Oscure e a destra dal realismo vaticano» Agnelli e Cefis «si erano eliminati vicendevolmente come gli scorpioni nella bottiglia». In mezzo, a mediare, non restava che lui, Andreotti. L’onorevole guardò l’orologio, erano le ventuno e trenta: «Alla stessa ora un’automobile scura di grande cilindrata avanzò verso l’ingresso del ristorante “Le coq d’or” sulla Flaminia vecchia. Il direttore del locale (uno dei più esclusivi della capitale) accompagnò premuroso sulla soglia gli ospiti. Aprendo la portiera posteriore dell’auto, l’uomo disse: “Buonanotte monsignor Casaroli, buonanotte senatore Pecchioli”».
Il piemontese Ugo Pecchioli è uno tra i comunisti più vicini a Mosca e ai Servizi. Sono gli anni della cosiddetta “solidarietà nazionale” o, per dirla con Massimo Teodori, della «degenerazione del sistema democratico in partitocratico», dei mutati rapporti di forza e della collaborazione “comunista” alla sfera governativa (alle elezioni regionali del giugno 1975 10.148.723 italiani, il 33,6 per cento, votano Pci, + 5,6 per cento; e alle “politiche” del giugno 1976 – le prime a cui possono votare i diciottenni – si registra un ulteriore passo avanti: 12.614.650 voti comunisti, il 34,37 per cento, + 7,22). Il Pci è sempre più forza di governo in numerose amministrazioni locali: di sinistra con Psi e Psdi, e di centrosinistra con la Dc.
A fronte del trionfo il Pci esulta, ma è in difficoltà, poiché il mandato dei ceti medi e della borghesia, che hanno votato numerosi per la falce e il martello, non è la rivoluzione o il cambiamento ma l’ordine. E si prefigurano anni di vacche magre e sacrifici.
Sono anche anni di inediti rapporti tra Pci e Servizi: è il lascito, scrive l’ex ufficiale del Sid Nicola Falde in un suo memoriale, «dell’intesa stabilita in quell’epoca tra Maletti, che riesce ad accreditare una sua affidabilità democratica a sinistra», e i senatori comunisti Pecchioli e Arrigo Boldrini, il carismatico partigiano Bulov.
È forse interpretabile in questo modo il sostanziale laissez-faire del partito sulle nomine di chiacchierati piduisti in delicati settori della sicurezza nazionale? Come la designazione nel 1977 dei generali Giuseppe Santovito (tessera P2 n. 1630) a capo del Sismi, di Giulio Grassini (tessera P2 n. 1620) al Sisde – i servizi segreti riformati – e del prefetto Walter Pelosi al Cesis, l’organismo di coordinamento e controllo dei primi due.
E tra le altre nomine ricorderemo almeno quelle del generale Pietro Musumeci (tessera P2 n. 1604) a capo dell’ufficio controllo e sicurezza; del colonnello Sergio Di Donato (tessera n. 1683) all’ufficio amministrativo del Sismi; del commissario di pubblica sicurezza Elio Cioppa (tessera n. 1890) al coordinamento Sisde per l’Italia centro-meridionale; del maggiore Vincenzo Rizzuti (tessera n. 2098) a capo della segreteria di Grassini.
Il Pci non ha nulla da obiettare nemmeno sul passaggio di proprietà del “Corriere della Sera” né, più in generale, sulle malefatte di Gelli e della P2.
Va esaurendosi la spinta propulsiva della rivoluzione russa del 1917 (la “Rivoluzione d’Ottobre”) e il Pci sta cambiando pelle, stemperando progressivamente la critica al capitalismo e accettando convintamente l’appartenenza dell’Italia all’area atlantica; tanto che, ad una tribuna politica, il 15 giugno 1976 Berlinguer dice chiaro che «è più conveniente per noi socialisti nella libertà stare sotto l’ombrello Nato». E oggi sappiamo che Mosca era d’accordo: ne dà notizia lo storico Roberto Gualtieri, che ha potuto consultare alcuni documenti inediti del Pci ed altri provenienti dagli ex archivi sovietici: quell’intendimento non solo non urtò i dirigenti sovietici, ma li trovò d’accordo. Non fu, insomma, una sorta di pre-strappo, anzi avvenne al culmine della ricucitura post-Sessantotto, anno della condanna da parte del Pci dell’invasione di Praga.
Mentre il ministro degli Esteri sovietico Andrej Gromyko parla il linguaggio degli affari con i vertici della Fiat e dei maggiori gruppi industriali europei – proponendo loro materie prime in cambio di tecnologie –, Berlinguer prova a dare fiato al progetto dell’eurocomunismo assieme al Pc francese di Georges Marchais e a quello spagnolo di Santiago Carrillo.
Aveva dunque ragione la ben pagata fonte Sid “Marte-Uranio”, ovvero Claudio Martelli che, analizzando i rapporti tra l’Est e l’Ovest europeo, trova il modo di osservare che l’Unione sovietica muove pugne di conquista economica, come già in Finlandia, e non militare. Al tempo stesso, il Partito comunista smette di prestarsi ad alibi per quel sistema di potere che aveva costruito la sua rendita di posizione sull’anticomunismo interno e sul “pericolo rosso” internazionale.

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